Chi si avvicina allo studio della fauna privilegia di solito una tra due opzioni. La opzione ecologica, vale a dire i rapporti tra esseri viventi e l’ambiente, talora in contrasto con quella degli etologi, che si occupano del comportamento animale, uomo incluso. L’opzione ecologica è quasi obbligata,  per chi vanta un’esperienza di tipo venatorio: per ragioni che possono essere radicate nella tradizione familiare (come nel mio caso) o per semplice “vocazione culturale”.

L'etologo Konrad Lorenz con la sua oca Martina
L'etologo Konrad Lorenz con la sua oca Martina


All’ecologo non interessa più di tanto la sorte dei singoli soggetti: egli studia la dinamica delle popolazioni, l’adattamento delle specie all’ambiente, le relazioni, a livello di numerosità e reciproca influenza, tra predatori e prede e via dicendo. Di norma il faunista ecologo è anche un convinto darwinista, che crede fermamente nelle forze che comandano l’evoluzione, quali la selezione naturale e la deriva genetica. Non a caso Charles Darwin fu, in gioventù, cacciatore appassionato, come egli stesso ebbe a dichiarare nella sua biografia.  Da quelle esperienze giovanili nacque infatti la consapevolezza, tipica di chi ha praticato e sperimentato nella prassi l’ars venandi, che la capacità riproduttiva delle popolazioni di animali selvatici più comuni o diffuse sono tali da compensare anche notevoli perdite e “prelievi”. Abbattimenti che ad altri, più o meno profani, spesso appaiono eccessivi “a priori”. Chi privilegia l’ approccio etologico tende invece ad attribuire grande rilevanza ai singoli individui ed alla loro sopravvivenza. Nello studio di una popolazione animale, anche in condizioni naturali, la prima preoccupazione dello studioso del comportamento è quella di distinguere, individualmente, il maggior numero di soggetti possibile, allo scopo di poterne registrare le sorti e le vicende di vita col massimo dettaglio possibile e con speciale attenzione per i comportamenti sociali. A tal fine una delle tecniche preferite, se la fisionomia degli individui oggetto di studio non sarà sufficiente a identificarli, sarà quella di marcarli, utilizzando i contrassegni e le tecnologie più svariate. Dagli anelli per l’avifauna, ai collari, le piastrine, i microchip o, quando le finanze disponibili lo consentono, le tecniche del radio-tracking.

Cigno reale marcato con collare presso la RN Foce Isonzo


Facile soccombere, in questo caso e per ragioni anche banalmente mnemoniche, alla tentazione di attribuire un nome proprio all’oggetto di studio; cosa che porta quasi inevitabilmente al coinvolgimento emotivo per le sorti di questo o quel soggetto, divenuti nel tempo quasi membri della propria famiglia. Anche l’ecologo, s’intende, per quanti sforzi possa fare, non sarà del tutto esente da reazioni sentimentali, ma il suo “affetto” sarà più probabilmente rivolto alla popolazione di una determinata specie (o gruppo di specie: le cosiddette biocenosi), piuttosto che ai singoli individui. Dal punto di vista teorico, razionale e scientifico, tra le due categorie non dovrebbero esistere differenze sensibili, trattandosi pur sempre di ricerca. Ma è nella direzione, inevitabilmente soggettiva, delle scelte di campo o argomento d’ indagine, influenzate dalla cultura individuale, che esse si sveleranno; non di rado accentuandosi nel tempo e magari nei più minuti dettagli. Nikolaas Tinbergen poteva studiare i suoi gabbiani comuni nidificanti valutando con discreta (ancorchè apparente) nonchalance gli effetti delle incursioni della volpe e del fenomeno del “satollamento”, che induceva gli uccelli nidificanti in affollate colonie a sincronizzare i tempi della riproduzione.
Konrad Lorenz, che con lo stesso Timbergen venne insignito del premio Nobel per la medesima disciplina, essendo dotato di grandi doti nella speculazione dei dettagli del comportamento individuale, non potè evitare di prendere parte, emotivamente, alle sorti della sua taccola o oca prediletta che fosse. Nella popolarizzazione delle ricerche del famosissimo ricercatore austriaco l’oca Martina
rischia di essere, per alcuni, quasi più famosa de suo stesso allevatore. Per tali motivi se il primo si autodefiniva “cacciatore”, l’altro accettò l’epiteto di “contadino – allevatore”. In breve, l’approccio ecologico può spingere i suoi adepti a non considerare troppo “importanti” o meritevoli di attenzione le sorti dei singoli individui, mentre l’etologo “puro”, se non opportunamente moderato, sarà quasi fatalmente diretto verso una deriva di tipo animalista. Senza offesa per questa importante categoria, s’intende. Ad essa va riconosciuto il merito, infatti, di combattere una battaglia in larga misura giusta e condivisibile a favore del benessere animale e contro l’inflizione di inutili sofferenze. Ma gli addetti ai lavori sanno benissimo quanto sia difficile, nello studio o anche nella semplice frequentazione della fauna, non farsi trascinare dalle emozioni: dalla tendenza a fornire interpretazioni antropomorfiche, alle simpatie o, ultimo ma non minore per rilevanza, dalle valutazioni di tipo (banalmente ?) estetico. Lasciando da parte la categoria dei ricercatori, più o meno professionisti, va detto, a questo punto, che i due diversi approcci alla zoologia sono seguiti, in forme spesso inutilmente tra loro in contrasto, da numerose categorie di persone che col mondo accademico poco o nulla hanno a che fare. I due opposti estremismi possono forse essere individuati tra “cacciatori sparatori” da un lato e “amanti sfegatati degli animali” dall’altro.

Uno degli ibis eremita allevati con imprinting nell'ambito del Progetto austriaco di reintroduzione
Uno degli ibis eremita allevati con imprinting nell'ambito del Progetto austriaco di reintroduzione


Chi frequenta (o gestisce) le “aziende agri-turistico venatorie”, dove la selvaggina, a tal scopo allevata, viene messa a disposizione su ordinazione di un tiratore, più o meno auto - giustificato dal desiderio di “addestrare il cane”, non prova probabilmente il minimo senso di fastidio nell’assistere alla ripetuta uccisione (ed alla sofferenza) di esseri viventi: tra l’altro relativamente vicini
alla nostra specie in quanto mammiferi o uccelli e perciò dotati, checchè se ne dica, di una marcata sensibilità. Altro caso da manuale che, con le dovute eccezioni, illustra gli eccessi di crudele menefreghismo è rappresentato – sempre con le dovute eccezioni - dalla diffusa pratica della “caccia in valle”, che si esercita anche ai giorni nostri specialmente nell’ambito del cosiddetto “Estuario veneto”, nelle vaste zone umide che si estendono da Trieste a Ravenna, ma specialmente nelle lagune di Venezia e sul Delta padano. Si tratta in tal caso di aree a gestione privata (Aziende faunistico – venatorie), dove si pratica il tiro intensivo alle anatre ed altri uccelli. In queste zone i carnieri che Arrigoni degli Oddi, Lebreton e tanti altri realizzavano agli inizi del novecento appaiono oggi cose da dilettanti. Grazie allo spargimento sistematico di camionate di mangime, gli anatidi vengono abilmente addestrati (a volte persino drogati) in modo da consentire a singoli fucili di abbattere, in una mattinata, anche diverse centinaia di capi ciascuno.  Gravi Infrazioni della legge a parte, la cosa che colpisce (mai espressione fu più apprpriata) è l’inutile uccisione e spreco di molte decine di migliaia di capi per ciascuna stagione venatoria, per il puro gusto del tirare “al volo” e non di rado, purtroppo, senza rispettare le specie più rare, minacciate e magari in via d’estinzione. Si dirà che nulla di “ecologico” può essere chiamato in causa nell’ipotesi di queste attività a sfondo sportivo – commerciale, ma gli esempi di cui sopra sembrano comunque interessanti, perché non di rado le medesime persone che frequentano o gestiscono le citate strutture sono poi quelle che, nei dibattiti,  invocano con maggior veemenza la necessità di una “gestione economica” della fauna selvatica e del territorio nel suo complesso. Sull’altra sponda emergono le categorie animaliste più estreme che spesso poco o nulla sanno della fauna “selvatica” e dei suoi problemi, occupandosi quasi esclusivamente di “specie d’affezione”. Per fare un esempio i protettori di gatti, cani (randagi inclusi), colombi o altro. Costoro, per essersi innamorati/e di una determinata specie, ritengono non solo di potere ma anche di dover diffondere più o meno ovunque, per esempio, le loro “colonie feline”: cosa che alla fauna selvatica non fa ovviamente troppo bene. Gli estremisti in questo settore, all’occasione, potranno  traformarsi perfino in “cinghialari”, dove questi prolifici suidi hanno iniziato a frequentare i dintorni (o magari l’interno) dei centri abitati. La sopravvivenza ed il benessere di ogni singolo animale da loro allevato ed individualmente riconoscibile saranno per costoro principi sacri e indiscutibili. 

Un cacciatore di anatre
Un cacciatore di avifauna


Il contrasto tra le opposte inclinazioni ed esigenze prende poi forma, e per così dire si materializza, nella paradossale legislazione vigente che, da un lato ammette e ritiene legali varie forme di cosiddetta “pronta caccia” (l’abbattimento di animali appena liberati dalle gabbie di allevamento durante una finta azione venatoria), dall’altro impone severissime misure miranti ad assicurare il “benessere” delle specie “di affezione”: espressione alquanto discutibile, che peraltro tende a tutelare gli animali che non vengono allevati a fini gastronomici, per la pelliccia od altro.  Come si possano sopprimere alcune migliaia di fagiani volanti (o svolazzanti), cinghiali, daini e via dicendo, “correnti”, a fucilate e all’interno di un recinto senza arrecar loro, come dice la legge: “inutile sofferenza” non è facile a dirsi. Un problema di fondo è poi quello dello “specismo”: sottoprodotto del razzismo. Considerare per esempio i cavalli meritevoli di ogni attenzione possibile, fino alla creazione di “bare feet associations” (le organizzazioni che teorizzano il divieto di ferratura) o di ospizi per equidi  anziani, senza dedicare simili attenzioni ad esempio ai bovini, non è cosa facile da spiegare sul piano razionale. Si tratta probabilmente, più che altro, di valutazioni di tipo estetico o di origine culturale, che tuttavia rischiano di portare ad artificiose separazioni tra specie soggettivamente considerate più o meno “nobili”.  Tornando invece a chi si occupa tutti i giorni di gestione faunistica e per concludere, sembra importante evidenziare aimeno alcune differenze tra le diverse categorie di pensiero. Se è vero che le specie abbondanti e che non temono l’estinzione possiedono intrinsecamente un tasso riproduttivo tale da metterle al sicuro, a livello globale, anche a fronte di prelievi venatori (o d’altra natura) massicci, è altrettanto vero che per molte altre tale principio non vale. Quelle rare, che localmente o globalmente rischiano l’estinzione soffrono anzitutto la carenza di superfici sufficientemente vaste caratterizzate dall’habitat peculiare. Quando gli habitat appropriati scarseggiano anche abbattimenti numericamente ridotti possono essere decisivi e letali per l’intera popolazione residua. Parte del mondo venatorio difficilmente accetta questa affermazione (peraltro abbastanza ovvia), attribuendo in primis le cause della rarefazione di questa o quella specie non alla caccia in sé, anche se praticata al di là delle regole, ma al degrado ambientale. Il mondo degli animalisti, legati invece all’ approccio etologico, continuerà ad osteggiare ogni forma di caccia, adducendo (quando gli argomenti scientifici vengono a mancare) principi etici difficilmente discutibili. Ambedue le categorie, ovviamente e in tal caso, sbagliano di grosso. Le soluzioni ai problemi, che esistono, potranno scaturire solo quando ci si sforza di affrontare contemporaneamente le reciproche, purchè sensate, ragioni, in una sorta di “contaminazione” che dovrebbe essere un obbligo per tutti quelli che si occupano, non troppo superficialmente, dei temi sopra riassunti. Si tratta in definitiva di fondere l’approccio “eco” con quello “eto” in un’ unica scuola di pensiero, senza aver la presunzione che solo uno dei due sia quello meritevole di attenzione. Sembra facile…